Viviamo in un’epoca che, se
potesse, abolirebbe tranquillamente dal vocabolario le parole come
“dolore”, “sofferenza”, “stanchezza”, “fragilità”,
“debolezza”, “malattia”, e perché no… anche
“depressione”. I diktat che ci arrivano continuamente dal mondo
esterno riguardano standard di perfezione, di forza, di successo, e
ci ingabbiano in uno schema di pensiero estremamente rigido ma
soprattutto altamente nocivo alla nostra soggettività.
Ogni stato emotivo che ci
attraversa, infatti, ha lo stesso diritto di esistere in noi, che ci
piaccia o no, e reprimerlo non può che allontanarci da noi stessi.
Il risultato è che la nostra
società produce in modo seriale individui sintomatici che sempre più
spesso non sanno nemmeno di esserlo, e quando invece riescono a
riconoscere la presenza del sintomo non sanno a cosa attribuirlo.
Il nostro mondo emotivo
insomma è troppo scollegato dalla realtà, e questo non può far
altro che farci stare peggio e cronicizzare il disturbo di cui
soffriamo.
La depressione, dunque,
anziché come disgrazia, va intesa come salvifica. La sua presenza
sta a significare che qualcosa dentro di noi si arrende, che vuole
spazzarci via, vuole eliminare i nostri soliti ragionamenti e le
nostre solite certezze.
E noi, quando si presenta,
dobbiamo essere pronti ad accoglierla come una grazia.